Siamo talmente abituati a vederla, acquistarla e consumarla sotto forma di bastoncino fritto o di chip croccante e salata, che molti dei nostri bambini, oggi, non sono più in grado di riconoscerla “in natura”, nella sua comune forma ovoidale, bitorzoluta e forse un po’ anonima. Un consumo, quello dei prodotti semilavorati e dei trasformati, che ha cambiato la percezione del cibo nell’immaginario collettivo delle nuove generazioni, a livello planetario.
Eppure, tra i frutti della terra, la patata è forse la più umile, semplice, antica e, allo stesso tempo, versatile. Ricca di amidi, ferro, potassio, di facile ed economica coltivazione e adattabile a quasi ogni clima sulla faccia della Terra. Una manna che ha strappato alla fame interi popoli e che, oggi come un tempo, rappresenta uno dei sostegni alimentari di base dei Paesi in via di sviluppo, dove il suo consumo è in aumento. E come sempre accade con le risorse del pianeta che diventano commodities, a partire dal secondo dopoguerra, anche la diffusione del tubero ha conosciuto una massificazione di proporzioni gigantesche. Un dato su tutti: oggi, dopo quella cerealicola (2,5 miliardi di tonnellate annue), la coltivazione della patata occupa il secondo posto nella produzione agricola mondiale con 368 milioni di tonnellate, seguita da quella delle banane con 107 milioni di tonnellate (fonte: FAO, ottobre 2013).
Niente male per il tubero rifiutato e demonizzato da un continente intero, la vecchia e “civilizzata” Europa, dove arriva dall’America latina a metà del XVI secolo. Ci vogliono, infatti, almeno due secoli, nonché l’opera divulgatrice di studiosi illustri come Antoine-Augustin Parmentier (1737-1813, che ne diffonde l’uso con il sostegno del Re di Francia Luigi XVI), ed editti reali, come il famoso Kartoffelbefehl (emanato da Federico II di Prussia nel 1756, per costringere i contadini a coltivare intensivamente le patate), per sradicare pregiudizi e tabù.
Difetti delle prime varietà importate, scarsa conoscenza e cattiva conservazione che portavano al pre-germogliamento con la conseguente formazione di solanina, un alcaloide tossico, impossibilità di consumarla cruda, uniti alla sua natura ipogea, che restava un mistero (non ci si spiegava come potesse nascere nella terra anziché dal fiore) e, come se non bastasse, al fatto di essere totalmente assente nella Bibbia, sono sicuramente alla base della lunga avversione al tubero.
Occorrerà attendere il XIX secolo per la sua “riabilitazione” da alimento per il bestiame a curiosa golosità, sulle tavole ricche, e sostanzioso nutrimento per le masse plebee. In alcuni Paesi del Nord Europa, si giunge persino all’estremo opposto: a favorirne cioè la coltivazione fino a farne il prodotto prevalente, con già allora “profetiche” e tragiche conseguenze che ci ricordano come l’agricoltura di una nazione – e di conseguenza l’alimentazione di quel popolo – mai debba basarsi sulla monocoltura. È il caso dell’Irlanda. Nel XIX secolo, dopo l’introduzione del tubero, utilizzato anche in panificazione per diminuire il fabbisogno del più costoso frumento, l’Irlanda vive un vero boom demografico, che si arresta drasticamente con le gravi carestie tra il 1845 e il 1848, conseguenza della diffusione di un fungo che falcidia letteralmente le colture isolane, portando a un’emigrazione di massa verso gli Stati Uniti. Qui, la patata paradossalmente giunge proprio “di ritorno” dal Vecchio Continente e, come altrove, non tarda a diventare il motore del nuovo sviluppo. Nel bene e nel male.
Dopo i conflitti mondiali, negli USA arrivano anche le French fries (le patatine fritte) da Francia e Belgio, dove sono di casa, e da lì inizia una nuova era. Con la cultura del fast food, la patata si trasforma e si ripresenta in Europa sotto nuove spoglie: semilavorata, congelata e già pronta da friggere, oppure in sottilissime sfoglie cotte al forno o fritte, buone da morire, ma anche rivestita di grassi, olii, sale, diventando ipercalorica e addizionata di una straordinaria gamma di aromi e altri ingredienti. E i packaging sono accattivanti e colorati, stravaganti per l’epoca, attirando così le generazioni incontenibili del boom economico.
Secondo i dati riportati dall’International Potato Center, oggi, meno del 50% delle patate coltivate a livello mondiale sono consumate fresche. La maggior parte finisce, infatti, nel massificato meccanismo della trasformazione: per la cosiddetta terza gamma (i surgelati, che si aggirano sugli 11 milioni di tonnellate l’anno), la produzione di chips, oppure di amido, farine e addensanti o di alimenti per il bestiame, e infine, dopo un procedimento complesso che si compie con la distillazione, di vodka e acquavite.
E le varietà, la biodiversità, in tutto questo?
Stenta, sicuramente, se pensiamo che in tutto il mondo si contano più di 4.000 varietà di patate (fonte: International Potato Center), ma che non sono più di 200 quelle coltivate in Europa, per esempio. E mentre la ricerca genetica sulle sementi fa passi da gigante, sono le qualità antiche o di montagna che rischiano una lenta, ma inesorabile estinzione. In realtà, i due fattori sono, a ben vedere, in rapporto di causa-effetto: da anni, da un lato, si selezionano solo le varietà commercialmente più interessanti, o che abbiano specifiche predisposizioni a particolari cotture, lavorazioni, etc.; dall’altro, non mancano azioni invasive, da parte delle multinazionali delle sementi, per l’immissione sul mercato di varietà geneticamente modificate, che da alcuni sono giudicate in grado di sconvolgere gli equilibri di intere regioni agricole. Come nel caso delle patate “Terminator”, sviluppate perché non avvenga il processo di germogliazione se non viene utilizzato uno specifico prodotto chimico, dunque impossibili da riseminare senza dipendere dal trattamento fornito dall’industria. Nel 2008, partì da Cusco (Perù) una determinata e ferma campagna degli agricoltori peruviani contro ciò che rischiava di compromettere la biodiversità di aree, come quella delle Ande, dove la selezione della patata è quella naturale dei secoli e dove la papa, con le oltre 3.000 varietà locali, è un’istituzione nazionale (fonte: Fondazione Slow Food per la Biodiversità).
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